Prospettive Sacre d'Oriente e d'Occidente

Dall'Uno ai molti

L’esemplarismo vedico1

Ananda K. COOMARASWAMY

La dottrina dell’Esemplarismo è connessa a quella delle ‘forme’ o ‘idee’, e si rapporta alla relazione intelligibile tra le forme, idee, similitudini o ragioni eterne delle cose (nāma, “nome” o “noumeno” = forma) e le cose stesse nei loro aspetti accidentali e contingenti (rūpa, “fenomeno” = figura). È come dire, in ultima analisi, che l’Esemplarismo è la dottrina tradizionale della relazione, cognitiva e causale, tra l’uno e il molteplice. La natura di questa relazione è lasciata intendere, nel sanscrito vedico, nelle espressioni viśvam ekam (ṚV. III, 54, 8), “i molti che sono uno, l’uno che è molteplice” (la “Molteplicità integrale” di Plotino), viśvam satyam (ṚV. II, 24, 12), “La verità molteplice”, e viśvam garbham (ṚV. X, 121, 7), “il germe di tutto”, ed enunciata più completamente in ŚB. X, 5, 2, 16, «Riguardo a questo dicono, ‘Esso, allora, è uno o molti?’ Si dovrebbe rispondere, ‘Uno e molti’. In quanto Egli è Quello, è uno; in quanto è molteplicità distribuita (bahudhā vyaviṣṭiḥ) nei suoi figli, Egli è molteplice»2, vale a dire come la «Persona nello specchio (ādarśe puruṣaḥ), Che nasce nei suoi figli come un’immagine di se stessa» (pratirūpaḥh, Kauṣ.Up. IV, 11).

Da questo punto di vista, la dottrina può essere meglio illustrata con un diagramma composto da due cerchi concentrici, con un centro comune e due o più raggi, o con il corrispondente simbolo vedico di una ruota (cakra) con il suo cerchio, il suo mozzo e i suoi raggi. Tale diagramma o simbolo rappresenta l’universo in sezione trasversale, i cerchi due gradi d’esistenza o “mondi” (loka), o ancora, in un senso più particolare, i livelli individuale e intellettuale, o umano e angelico (adhyātma e adhidaivata). Il mondo intero, o universo (viśvam) così rappresentato corrisponde all’insieme di tutte le possibilità della manifestazione, siano esse informali, formali o sensibili; un mondo (loka = locus) è un insieme di possibilità, una data modalità d’esistenza. L’oceano infinito della possibilità universale, tanto di manifestazione che di non-manifestazione, è rappresentato dalla superficie bianca di un foglio di carta che allo stesso tempo penetra e trascende l’estensione indefinita dell’universo finito rappresentato da questo diagramma; questa superficie illimitata non è alterata dall’estensione o dalla cancellazione del diagramma, il quale non occupa un posto determinato. Ogni raggio rappresenta il principio d’una coscienza individuale, e la sua intersezione con una circonferenza, l’operazione di questo principio con tale stato d’esistenza. Ogni punto d’intersezione forma così il centro di un “mondo” minore, tracciato attorno al suo centro sulla circonferenza interiore della sfera – il cui diagramma è una coppa orizzontale – su una superficie piana, che si trova ad angolo retto con il raggio che unisce il centro unico al punto in questione. Questo centro unico, come l’intero diagramma, non ha di per se una posizione determinata, la “posizione” avendo senso solo su o nella circonferenza; e proprio come la superficie originaria è indipendente dalla possibile presenza d’un centro con o senza i suoi raggi, allo stesso modo le proprietà di questo centro unico, una volta determinato, risultano indipendenti dall’estensione o dalla soppressione dei raggi. E come gli indefiniti punti che costituiscono la superficie delle innumerevoli sfere concentriche rappresentano i punti di vista dei soggetti conoscenti individuali, così il punto unico, dal quale procedono tutti i raggi e verso il quale tutti convergono, rappresenta una coscienza onnisciente e sopra-individuale, metafisicamente il Principio Primo, teologicamente Dio nel suo aspetto intelligibile, quello del Sole spirituale o Luce suprema; mentre quel che abbiamo chiamato la superefice d’origine, trascendente e immanente ad un tempo, rappresenta la Divinità o la Tenebra divina. A rigore, il diagramma dovrebbe essere rappresentato, non in nero su bianco, ma in oro su di un fondo nero, ed è così infatti che è rappresentato il jyotiratha, il “carro di luce” vedico (il biblico “carro di fuoco”) con le sue ruote.

In un tale diagramma è ovvio che per ogni punto posto sulla circonferenza esterna c’è un corrispondente e analogo punto nella circonferenza interna, con la sola differenza che nella circonferenza interna i “punti” sono molto più “compressi”. Se la circonferenza del cerchio interno si riduce tale condizione rimane immutata e non è concepibile alcun momento in cui i “punti” che compongono la circonferenza (o superficie sferica essa rappresentata) possono essere annullati; possiamo soltanto continuare a pensarli come sempre più compressi, per coincidere infine in un’unità senza composizione. In altre parole, l’insieme dei raggi – tutti i principi individuali – nella loro totale estensione, sono rappresentati al loro centro comune, in principio, in un principio non quantificabile (tattva) che è al tempo stesso una sostanza semplice (dharma) dotata d’una natura (svabhāva) multiforme; un punto unico, ma anche, al tempo stesso, lo specifico punto di partenza d’ogni singolo raggio. È in questo senso che «Le nozioni di tutte le cose create (kāvyā = kavikarmāṇi) gli sono inerenti, essendo esso, per così dire, come il mozzo della ruota (cakre nābhir iva śritā, ṚV. VIII 41, 6)»3; «In lui sono tutti gli esseri, ed egli è l’occhio che sorveglia; intelletto (manas), soffio (prâṇaḥ) e noumeno (nāma) essendo coincidenti (samāhitam, “sono in samādhi”); in lui, quando si manifesta, tutti i suoi figli godono (l’appagamento dei loro fini o scopi, con il quale la loro volontà di vita è determinata)4; proveniente da lui e originato da lui, è in lui che tutto questo universo è reso stabile» (AV. XIX, 53, 6-9); parimenti, in quanto Persona o Uomo [puruṣa = l’Uomo Universale], Egli è chiamato anche «il supporto di tutti i fenomeni» (rūpāṇy eva yasyâtanam… puruṣam, BṛhU. III, 9, 16).

Questa presenza nella coscienza centrale è pertanto il mezzo d’un «insieme sintetico di conoscenza integrale» (ekibhūta prajñāna-ghana, Māṇḍukya Up. 5), «un pleroma cognitivo» (kṛtsnaḥ prajñāna-ghana, BṛhU. IV, 5, 13); «Egli conosce il tutto in modo speculativo» (viśvaṁ sa vedo varuṇa yathā dhiyā5 ṚV. X, 11, 1), e ab intra, «prevedendo, ancora prima della loro nascita, di tutte le generazioni di Angeli» (garbhe nu sann anv eṣām avedam ahaṁ devānāṁ janimāni viśvā, ṚV. IV, 27, 1)6. In altre parole, la sua conoscenza delle cose non è derivata da esse oggettivamente e post factum, ma dalla loro prima immagine nello specchio del suo intelletto. Come il sole fisico gode d’una vista d’insieme di tutta la terra nella sua orbita, così il Sole spirituale «contempla il tutto» (viśvam abhicaṣṭe, ṚV. I, 164, 44), essendo l’occhio o Aussichtspunkt, il “punto di sorveglianza” (adhyakṣa) di Varuṇa o dell’insieme degli Angeli (vāṁ cakṣur… sūryas… abhi yo viśva bhuvanāni caṣṭe, ṚV. VII, 61, 1: cfr. I, 115, 1; X, 37, 1; X, 129, 7; VS. XIII, 45, etc.), parimenti che nell’Avesta il Sole (hvare = svar = sūrya) è l’occhio di Ahura Mazda, e nel Buddismo il Buddha è «l’occhio nel mondo» (cakkuṁ loke). Ciò che quest’occhio vede nello specchio eterno è la “rappresentazione del mondo”: «Lo Spirante primordiale (paramâtman) vede la rappresentazione del mondo (jagac-citra, letteralmente «l’immagine di ciò che si muove») da lui stessa dipinta su un fondale che non è altro che lui stesso, e si rallegra per questo» (Śaṅkarâcārya, Svâtmanirūpaṇa, 95); «Egli vede tutte le cose allo stesso tempo nella loro diversità e nella loro coincidenza» (abhi vi paśyati e abhi saṁ paśyati, ṚV. III, 62, 9 e X, 187, 4, cfr. BG. VI, 29-30).

Preso in sé e per sé questo Spirante primordiale, senza composizione (advaita), e in stato di quiete (śayāna), è «il vivente principio congiunto» di San Tommaso (Sum. Theol., I, q. 27, a. 2c.) l’unità dei «genitori in coabitazione» (sakṣitā ubhā mātarā, ṚV. I, 140, 3, parikṣitā pitarā, III, 7, 1 etc.), chiamati con innumerevoli nomi, ma più specificatamente l’“Intelletto” (manas) e la “Parola” (vāc)7, dalla cui unione si produce quel che Meister Eckhart chiama «l’atto della fecondazione latente nell’eternità». Ma questa inintelligibile unità del Padre(-Madre)8 risiede interamente nella tenebra del “nido comune” o della “matrice” in cui tutte le cose vengono all’essere a partire da uno stesso genere (yatra viśvam bhuvaty ekanīḍam, ṚV. khila IV, 10 e VS. XXXII, 8; sarve asmin devā ekavṛto bhavanti, AV. XIII, 4, 20).

Così, mentre l’intelletto divino e le idee o forme o ragioni eterne che ad esso si presentano costituiscono una unità in sé (secundum rem), esse sono allo stesso tempo molteplici a motivo della nostra comprensione o della nostra enunciazione (secundum rationem intelligendi sive dicendi, cfr. S. Bonaventura, I Sent. d. 35, a. unic., q. 3, concl.). Come scrive Plotino (IV, 4, 1) «L’Altissimo, in quanto unità chiusa, non produce effetti9 … ma l’unità della potenza è tale che essa accorda il suo essere molteplice ad un altro principio, grazie al quale essa è tutte le cose».

Ciò che si è già rappresentato nel nostro diagramma presume la separazione (dvedhā, BṛhU. I, 4, 3) di quelli che sono stati strettamente abbracciati (saṁpariṣvaktau, ib. ), ossia quella del conoscente e del conosciuto, del soggetto e dell’oggetto, dell’essenza e della natura, del Cielo e della Terra, come è indicato dall’allontanamento della circonferenza dal suo centro. Questa separazione e processione divina (krama = dvitva, Taittirīya Pratiśākhya, XXI, 16)10 coincide con la nascita del Figlio (Indrâgni), della Luce (jyotis), del Sole, «Savitṛ il creatore che libera le forme visibili di tutte le cose» (viśvā rūpāṇi prati muñcate kaviḥ…savitā, ṚV. V, 81, 2); «dalla separazione del primo fuoriesce ciò che appare in seguito» (prathamāḥ…kṛntatrād eṣām uparā udāyan, ṚV. X, 27, 23). In altre parole, l’atto d’essere denotato da espressioni come «Io sono ciò che Io sono», «Io sono Brahman»11, sebbene rimanga un’intenzione rivolta interamente a se stesso, diviene, da un punto di vista esterno, l’atto della creazione, che è allo stesso tempo una generazione (prajanana) e una creazione intellettuale (manāsa) per artem (taṣṭa) e ex voluntate (yathā vaśam, kāmya); poiché il Figlio «in cui sono state create tutte le cose» (Col. I, 16) è anche la loro forma e il loro modello esemplare, la causa totale della loro esistenza12, ed è per questo che le specie e la bellezza sono appropriate al Figlio, che come mondo, cioè come concetto, Agostino chiama “l’arte” di Dio13.

Il Figlio o il Sole è così «la forma unica che è la forma di tutte le differenti cose» (Meister Eckhart, che riassume in queste parole l’intera dottrina)14 , tutte sono nella sua idea, come egli stesso è nelle loro, ma con questa fondamentale differenza resa necessaria dall’incommensurabilità del centro unico, che come l’immagine nella cosa dipende dall’archetipo, quest’ultimo non dipende in alcun modo dalla cosa, ma le è logicamente antecedente: «Modello di tutto ciò che è, preesistente, Egli conosce tutte le generazioni (sataḥsataḥ pratimānaṁ purobhuḥ viśvā veda janimā), Egli uccide il drago; splendendo (o ‘risuonando’) fuori (pra… arcan) dal Cielo il nostro capo, contento del bestiame, come Compagno libera i suoi compagni dalla maledizione» (amuñcat nir avadyāt, ṚV. III, 31, 8)15. I termini “esemplare” e “immagine”, che per l’esattezza stanno ad indicare un “modello” e una “copia”, possono prestarsi ad un equivoco, e per questo si deve distinguere tra l’archetipo come imago imaginans e l’imitazione come imago imaginata (S. Bonaventura, I Sent., d. 31, p. 11, a. 1, q. 1 concl.). Un’analoga ambiguità si riscontra nel sanscrito, dove la distinzione dev’essere fatta in base al contesto. Come imago imaginans la divinità è chiamata «la forma universale e primordiale» (agriyaṁ viśvarūpam, ṚV. I, 13, 10), «l’immagine di tutte le cose» (viśvasya pratimānam, ṚV. 11, 12, 9, cfr. III, 31, 8, citato sopra), «l’immagine onniforme d’un migliaio» (sahasrasya pratimāṁ viśvarūpam, VS. XIII, 41), «la controparte della Terra» (pratimānaṁ pṛthivyāḥ, ṚV. I, 52, 13), «Egli è stato il modello d’ogni forma (rūpaṁ rūpaṁ pratirūpo babhūva), ed è questa sua immagine che noi dovremmo osservare (tad asya rūpaṁ praticakṣanāya); con i suoi poteri magici (māyābhiḥ) Egli si manifesta secondo una pluralità di aspetti» (pururūpa īyate, ṚV. VI, 47, 18). Se si chiede: «Qual era il modello, e il punto di partenza?» (kâ… pratimâ nidânam kim, ṚV. X, 130, 3), la risposta è: la vittima sacrificale ; poiché questa immagine e questa rassomiglianza in cui si manifesta il Padre, è il sacrificio – «offrendosi agli Angeli, egli esprime un’immagine di se stesso, il sacrificio, da ciò si dice ‘Prajāpati è il sacrificio’» (ātmānaḥ pratimānam asṛjata, yad yajñaṁ, tasmād āhuḥ prajāpatir yajñaḥ, ŚB. XI, 1, 8, 3); cfr. «Manu è il sacrificio, la misura (pramitiḥ), il nostro Sire». La relazione tra l’Uno e il molteplice è nuovamente lasciata intendere, il Padre rimane impassibile, anche se mediante il sacrificio divenga divisibile in un’immagine consustanziale (quella dell’“Anno”, ib. XI, 1, 6, 13). Ma mentre in questi passaggi non si può dubitare dell’antecedenza dell’esemplare (pratimāna, pratimā, pratirūpa), il pratirūpa in KBU. citato sotto non è meno sicuramente imago imaginata. Anche se Egli è il modello di tutte le cose, nessuna di esse può essere detta il suo simile, «Di lui non c’è somiglianza (pratimānam) tra i nati o tra quelli che devono nascere» (ṚV. IV, 18, 4)16.

L’immagine esemplare, la forma o l’idea è quindi una similitudine nel senso principale di prototipo imitabile; infatti, «È in quanto Dio conosce la sua essenza come suscettibile d’imitazione da parte di questa o quella creatura, che Egli la conosce come ragione particolare e idea di questa creatura» (S. Tommaso, Sum. Theol., I, q. 15, a. 2 c)17. Una tale assimilazione non comporta necessariamente una similitudine di natura o di modo; infatti, minima assimilatio sufficit ad rationem exemplaris (S. Bonaventura, I Sent., d. 36, a. 3, q. 2 concl.). Ad esempio, se «Egli risplende su questo mondo sotto l’aspetto di Persona» (puruṣarūpeṇa, AA. 11, 2, I), e se l’uomo «è fatto ad immagine e somiglianza di Dio», non ne consegue che Dio com’è in Se stesso sia simile all’uomo o della sua stessa natura, ma soltanto che la forma o idea dell’uomo è presente alla Sua coscienza e al Suo essere e lo è, sia chiaro, al pari di un’ameba. È in modo analogo che un artista rappresenta la forma unica concepita dal suo intelletto in altre nature come la pietra e la pittura; l’imago imaginans, qui come prima, è la causa formale del divenire o dell’imago imaginata, com’è implicitamente espresso dalla frase ars imitatur naturam in sua operatione, dove la Natura è la «Natura naturans, Creatrix, Deus».

Nella KBU. IV, 2, «Il macrocosmo nel Sole, l’immagine nello specchio» (āditye mahat . . . ādarśe pratirūpaḥ), pratirūpa è evidentemente l’imago imaginata. Infatti è come una riflessione o una proiezione e, come vedremo, nelle loro modalità di manifestazione (sṛjyamāna), che le ragioni eterne o idee (nāmāni) sono rappresentate nei loro aspetti contingenti (rūpāṇi). Tale formulazione si riconduce alla dottrina tradizionale della corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo, come enunciato ad esempio in AB. VIII, 2: «Il mondo superno è ad immagine (anarūpa) di questo mondo, questo mondo è ad immagine di quello», condizione che è indicata chiaramente nel nostro diagramma dalla corrispondenza del cerchio con il cerchio, punto per punto. Il modo in cui le idee sono causali in rapporto a i loro aspetti contingenti, risulterà evidente ricordando che la coscienza centrale è sempre considerata come una Luce o un Suono, le cui forme contingenti su ogni circonferenza sono come delle proiezioni, riflessioni, espressioni o echi simili a quelli lasciati sul muro della caverna di Platone, o sulla scena di un teatro, con questa sola differenza che il disegno o l’immagine proiettata corrispondente alla “forma” o “idea” dell’immagine attualmente vista, non è semplicemente vicina alla fonte della luce, ma intrinseca alla luce stessa, per cui incontriamo da una parte espressioni come «luce formale» (Ulrico di Strasburgo) e «luce portatrice d’immagine» (Eckhart), e dall’altra, come ad esempio in VS. V, 35, «Tu sei la luce onniforme» (jyotir asi viśvarūpam)18. «Egli ha prestato la loro luce ad altre luci» (adadhāj jyotiṣu jyotir antaḥ, ṚV. X, 54, 6). «Voi, Agnīsomau, avete trovato l’unica luce per molti»; e nella costruzione dell’altare del fuoco, il mattone posto per “la progenie”, che rappresenta Agni, è chiamato la “luce molteplice” (viśvajyotis, SB. VIII, 4, 2, 25-6).

A questo riguardo si presenta una questione sottile. Che cosa s’intende con l’espressione «Lo Spirante è senza fine, onniforme e tuttavia di niente l’artefice» (anantaś câtmā viśvarūpo hy akartā, ŚvU. I, 9), o come l’esprime Eckhart con l’apparente contraddizione che «Egli opera volente o nolente» e che «Nessun’opera è stata fatta»? Tenendo conto che tutti i poteri della Persona [divina] sono descritti come capaci di raggiungere ogni cosa (viśvaminva, ṚV. passim, cfr. 11, 5, 2, dove Agni è viśvam invati), cosa s’intende con l’espressione: «Dietro il Cielo superno19 , ciò che cantano è una parola onniscente che non impone nulla» (mantrayante divo arnuṣya pṛṣṭhe viśvavidaṁ vācam aviśvaminvam, ṚV. I, 164, 10), e perché il carro del Sole, anche se per natura è diretto ovunque (viṣūṛtam), è descritto anche come non avente effetto su nulla (aviśvaminvam, ṚV. 11, 40, 3)? Queste domande hanno una portata fondamentale a proposito del destino e del libero arbitrio. In questi termini: la processione centrifuga delle potenzialità individuali dipende essenzialmente dall’unità centrale, il loro divenire, la vita o la spirazione dipendono interamente dall’essere e dalla spirazione dello Spirante primordiale, nel senso che la stessa esistenza dei raggi individuali diventa impensabile se facciamo astrazione del punto luminoso centrale20; e questa dipendenza è costantemente affermata, ad esempio nella designazione di Agni come «supporto universale» (viśvambhara).

D’altra parte, non è la singola forma di tutte le potenzialità che dà arbitrariamente le disposizioni («Il Cielo non dà ordini»), ma la forma specifica21 di ogni potenzialità che determina ogni modalità o carattere individuale d’ogni cosa e gli fornisce la sua “propria immagine” (svarūpam). In altre parole Dio o l’Essere è la causa comune del divenire di tutte le cose, ma non direttamente quella delle loro distinzioni, le quali sono determinate dalle «differenti opere insite nelle rispettive personalità» (Śaṅkarâcārya, commento a Vedânta Sūtra, II, 1, 32, 35); esse sono nate secondo la misura della loro comprensione (yathā-prajñam, AA. II, 3, 2); o come più comunemente asserito nel ṚV., secondo i loro diversi fini o scopi (anta, artha): «Vivono dipendendo (upajīvanti) dai loro agognati fini» (yaṁ yam antam abhikāmaḥ, ChU. VII, 1, 4). Così è detto: «Percorrete ora le vostre diverse vie» (pra nūnaṁ dhāvata pṛthak, ṚV. VIII, 100, 7)22. «Alla fine», come dice Plotino (IV, 3, 13 e 15), «la legge è data alle entità a cui essa s’applica, e ciascuna la porta con sé. Quando arriva il momento, ciò che è stabilito si avvera per opera di coloro in cui essa risiede, sicché sono essi che la eseguono in quanto la portano con sé, ed essa prevale perché è dentro di loro; diventa come un pesante fardello e provoca in loro un doloroso anelito ad entrare nel regno interiore al quale sono chiamati», e quindi, «ogni diversità di condizione nelle sfere inferiori è determinata dagli esseri stessi che vi discendono».

Una tale dottrina, che rende ogni creatura fonte e latrice non del proprio essere, ma del proprio destino (e questo è ciò che s’intende per “libero arbitrio”, anche se questo in realtà è uno stato di schiavitù in rapporto all’idiosincrasia della volontà individuale), è comune a tutte le tradizioni, ed è stata espressa ovunque quasi negli stessi termini: «È manifesto che il fato risiede nelle stesse cose create» (S. Tommaso, Sum. Theol., I, q. 116, a. 2 ); «L’essere di Dio è donato a tutte le creature, ognuna lo riceve secondo le proprie condizioni» (Tauler, The Following of Christ, English version by Morell, § 154, p. 135); «L’armonia è qui come il suono o la tonalità della voce eterna; nel santo, santo, nel malvagio, malvagio» (Boehme, Signatura Rerum, XVI, 6-7); «La luce formale…la cui diversità è provocata dalla diversità delle superfici che ricevono la luce» (Ulrico di Strasburgo); come dice Macrobio unus fulgor illuminat, et in universis appareat in multis speculis (Comm. ex Cicerone in Somnium Scipionis, I, 14). Troviamo questo punto di vista anche nell’Islam; la parola creatrice kun, «Sii!», causa e permette l’esistenza positiva degli individuali, ma in un altro senso (quello della modalità) essi sono la causa di se stessi «perché Egli non vuole che in essi deve divenire» (Ibn ‘Arabī, citato da Nicholson, Studies in Islamic Mysticism, p. 151).

Che noi si faccia quel che dobbiamo fare è una questione di necessità contingente (necessitas coactionis) tutt’affatto distinta dalla necessità infallibile (necessitas infallibilitatis), con la quale Colui che agisce «spontaneamente, ma non secondo il Suo volere» (Eckhart), «fa ciò che deve essere fatto» (cakriḥ . . . yat kariṣyam, ṚV. VII, 20, 1, cfr. I, 165, 9 e VI, 9, 3), ovvero «quelle cose che Dio deve volere di necessità» (S. Tommaso, Sum. Theol., I, q. 45, a. 2 c). L’individuo, dunque, è liberato (mukta) solo nella misura in cui la sua volontà privata alla quale è asservito sia in accordo con quella di Colui che vuole allo stesso modo tutte le cose, condizione sottintesa in ṚV. V, 46, 1, condizione «di chi ha ciò che desidera, la cui spirazione è il suo desiderio, e che non ha più alcun desiderio» (āpta-kāmam ātmā-kāmam akāmam, BU. IV, 3, 21); come dice Boezio «Tanto più una cosa è prossima alla Mente Prima, meno è legata alle catene del fato». Queste considerazioni difficilmente possono essere rese intelligibili senza un riferimento al concetto della relazione tra l’uno e i molti proprio dell’Esemplarismo, ed è per questo motivo che abbiamo ritenuto adatto menzionarle in questa sede.

A proposito della nostra traduzione di ātman: nella precedente citazione di Tauler “essere” o “essenza” corrispondono a ātman come il suppositum degli accidenti e il sine qua non d’ogni modalità (-maya). Noi abbiamo sperimentato altrove la traduzione di ātman con “essenza”, ma ci proponiamo in futuro di aderire ad un equivalente più strettamente etimologico, dato che la dottrina dell’ātman in ṚV. deve essere considerata in rapporto a X, 129, 2, ānīd avātam, equivalente «allo stesso tempo ad ātmya e anātmya» o «simultaneamente spirato, despirato». La parola ātman, derivata da an o respirare o soffiare, è infatti letteralmente “spirito”, spirante o spirazione, e quindi “vita”23 . Questo Spirito, Soffio o Vento (ātman, prâṇa, vāta, o vāyu), come si può capire da ciò che è stato detto prima, è la sola proprietà che può essere condivisa e pertanto apparentemente divisa, come Essere tra gli esseri, il soffio di vita negli esseri che respirano, cfr. BṛhD I, 73, «La spirazione (ātman) si dice sia la sola partecipazione (bhaktiḥ) che può essere attribuita ai tre grandi Signori del mondo» (la Triade di funzioni). In ṚV. I, 115, 1, «Il Sole, come spirante (ātman) in tutto ciò che è mobile o immobile, ha riempito il Mondo intermedio, il Cielo e la Terra» (i “Tre mondi”, l’Universo); in X, 121, 2 «Il Germe Aureo (hiraṇyagarbha, Agni, il Sole, Prajāpati) è colui che dona la spirazione» (ātmadā); Agni in questo senso è “un centuplice spirante” (śatâtmā, ṚV. I, 149, 3), vale a dire che ha innumerevoli vite o ipostasi, di fatto tante quanti sono gli esseri viventi (antar āyuṣi, ṚV. IV, 58, 11), per ognuna delle quali esso è una presenza totale (come si può vedere chiaramente nel nostro diagramma), anche se, come abbiamo visto, ognuna semplicemente partecipa (bhakta) della sua vita, poiché sebbene «sia offerto tutto, il recipiente può accogliere solo a misura della sua capacità» (Plotino, IV, 4,3)24. In JUB. III, 2-3, «La Spirazione (ātman) degli Angeli e dei mortali, il soffio di vita (ātman) sorto dal mare, e che è il Sole Superno»25 deve essere letta in connessione con ŚB. VIII, 7, 3, 10 «Il Sole Superno unisce (samāvayate)26 questi mondi con un filo (sūtre)27 e ciò che tesse è il Vento» (vāyuh), cfr. ib., II, 3, 3, 7, «È con i suoi raggi (raśmibhiḥ) che tutte le creature sono dotate delle loro spirazioni (prâṇeṣu abhihitāḥ), ed è così che questi raggi si estendono in basso verso queste spirazioni». Questi testi richiamano ṚV. I, 115, 1 citato prima e III, 29, 11, «Formato nella Madre, Egli è Mātariśvan» (Vāyu, Spiritus) e diventa la corrente del Vento nel suo corso (vātasya sargaḥ), cfr. VII, 87, 2, «Il Vento che è il tuo respiro (ātmā te vātaḥ) tuona nel Firmamento… e in queste sfere della Terra e dell’alto Cielo ci sono tutte queste stazioni a te care». In ṚV. X, 168, 4, «Quest’Angelo, la spirazione degli Angeli (ātmā devānām), Germe del Mondo (bhuvanasya garbha) si muove a volontà (yathā vaśam)28; se ne percepisce il rumore (ghoṣā)29, ma mai la forma (rūpam), offriamo dunque un’oblazione al Vento» (vātāya).

Similmente in testi più tardivi: «Attraverso questa condivisione della sua spirazione, o di se stesso (ātmānaṁ vibhajya, cfr. bhakti in BṛhD. I, 73), Egli riempie questi mondi, e per questo si dice: ‘Come le scintille dal fuoco, e come i raggi dal sole, così nel corso della sua processione (yathā kramaṇena) i soffi e gli altri principi (prâṇâdyaḥ) procedono da lui incessantemente’» (abhyuccaranti punaḥpunar, MU. VI, 26). E in epoca ancor più tardiva: «Quello (ossia il Principio, tattva, chiamato Sadāśiva, l’Eterno Śiva) diviene per movimento inverso (viparyay eṇa)30 e nello splendore del suo potere effettivo (kriyāśakty-aujjvalaye, cfr. ujjvalati in MU. VI, 26) la forma del demiurgo universale delle cose nella loro immagine manifestata (vyaktâkāra-viśvânusaṁdhātṛ- rūpam), e questo è il principio chiamato “Signore” (īśvara-tattvam, Mahārtha-manjarī, XV, Commento)31; virtualmente identico alla formulazione di Filone, secondo il quale «Dal Logos sono in primo luogo distinti (σχιζονται) due poteri: un potere poetico secondo il quale l’artista ordina tutte le cose ed è chiamato Dio; ed il suo potere regale chiamato il Signore, con il quale controlla tutte le cose»32.

Da tutti i precedenti passaggi è evidente che nella scolastica e nel neoplatonismo, così come nella tradizione vedica, una luce formale è la causa dell’essere e del divenire di tutte le cose (come luce è la causa del loro essere, e in quanto è formale è la causa del loro divenire). L’irraggiamento principiale di questa luce primordiale sembra essere un’espressione o un’emanazione (sṛṣṭi) in atto e un movimento spaziale (curaṇam, gati), sebbene in realtà quest’Agni, quand’anche «si muove per primo, rimane nondimeno nella sua posizione» (anv agraṁ kṣeti budhnaḳ, ṚV. 111, 55, 6), «Pur continuando a rimanere nel Germe, Egli nasce ripetutamente» (ṚV. VIII, 43, 9), cfr. Plotino (IV, 3, 13): «Restando inalterato là in alto, anche se dona verso il basso», ed Eckhart: «Il Figlio rimane all’interno come Essenza e si manifesta come Persona… altro, ma non un altro, perché questa distinzione è logica (sanscr. vikalpam), non reale» (sanscr. satyam).

Come ha detto Plotino (VI, 4, 3), «Nella teoria della processione delle potenze33 , le anime sono descritte come raggi»34 . In altre parole, il principio vivificante (jinva, codana, sava) è sia una potenza vivente che vocale, e la luce del mondo. Āyu, la “Vita” è Viśvâyu, la “Vita Universale”, sono epiteti usuali di Agni, che è «l’unica vita degli Angeli» (asur ekam devānām, ṚV. I, 121, 7) e «il solo guardiano dell’essere» (bhūtasya . . . patir ekaḥ, ib. I ); egli si manifesta come Luce (jyotis, bhāna, arka, etc.), sia essa la scintilla del Fuoco o il Sole Superno. Come in Giovanni, I, 1-3, In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum…Omnia per ipsum facta sunt …Quod factum est in ipso vita erat; et vita erat lux hominum35.

Questa equivalenza di vita, luce e suono deve essere tenuta in conto quando consideriamo la relazione causale tra il vedico nāma, “nome” o “noumeno”, e rūpa, “fenomeno” o “figura”, che è quella tra la causa esemplare e l’exemplatum; poiché, mentre nāma implica in primo luogo il concetto di pensiero o suono, rūpa implica invece quello di visione. Luce e suono non sono a rigor di termini sinonimi, poiché pur riferendosi ad una sola e medesima cosa, lo fanno secondo aspetti differenti, ma l’espressione Fiat lux e la manifestazione Lux erat non implicano in alcun modo una successione temporale; l’enunciazione (vyāhṛti) dei nomi e l’apparizione dei mondi sono simultanee e a rigor di termini eterne36. Come troviamo in JUB. III, 33 che «Il Sole è suono; quindi dicono del Sole ‘procede risuonando’» (ya āditya svara eva saḥ, tasmād etam ādityam āhus, svara etîti): il fragore della ruota del mondo è come la musica delle sfere. È infatti difficile fare una distinzione tra le radici svar, “splendere” (da cui sūrya, “sole”) e svṛ, “emettere un suono” o “risuonare” (da cui svara, “nota musicale”) e anche in alcuni contesti “splendere”. Una simile applicazione si trova nel caso della radice arc che significa sia “splendere” che “intonare un canto” e i suoi derivati come arka che può significare “splendore” o “inno”. C’è anche uno stretto rapporto, che all’origine era probabilmente una coincidenza, tra le radici bhā, “splendere”, e bhan, “parlare”. Anche in italiano diciamo tuttora idee “luminose” e parole “brillanti”.

Lo splendore del Sole Superno è quindi sia una “parola” sia una “irradiazione”; egli invero parla (mitro . . . bhruvāṇaḥ, ṚV. III,59, 1; VII, 36, 2) e quel che ha da dire è «quel grande nome nascosto (nāma guhyam) di effetto molteplice (puruspṛk), per mezzo del quale tu produci tutto ciò che viene all’essere o che diverrà» (ṚV. X, 55, 2) – «il Padre ha parlato di se stesso e di tutte le creature nel Verbo, a tutte le creature nel Figlio» (Eckhart). Il nome d’una cosa è dunque anteriore, in senso gerarchico piuttosto che temporale, rispetto alla cosa stessa e ne è la ragion d’essere, sia in quanto modello che come nome; di conseguenza è come un’espressione (sṛṣṭi) o una parola (vyāhṛti) che la cosa stessa è manifestata o evocata; «in principio quest’universo era inespresso» (avyāhṛti, MU. VI, 6).

Nei paragrafi conclusivi del presente studio riuniremo alcuni testi dei Veda nei quali è esplicita o sottintesa la dottrina secondo la quale la pronuncia di un nome ha un effetto creativo. Ad esempio, «Egli con i nomi delle quattro (stagioni) ha posto in movimento i suoi novanta corsieri, come una ruota circolare» (ṚV. I, 155, 6) ovvero la Ruota dell’Anno che consta di 90 giorni a stagione; è «con questi quattro nomi immacolati di titano (asuryāṇi nāmādābhyāni…yebhiḥ), che egli sa che tu, Indra, hai compiuto tutte le tue possenti imprese» (karmāṇi cakartha, ṚV. X, 55; cfr. III, 38, 4). È dopo questi nomi nascosti che l’Artefice d’ogni cosa nomina, ossia crea, gli Angeli, essendo Colui che conferisce il nome agli Angeli (devānāṁ nāmadhāḥ, ṚV. X, 82, 3). È facendo ricorso ad Agni che questi Angeli «acquisiscono per se stessi questi nomi con i quali sono venerati con sacrifici e hanno reso meravigliosamente nobili i loro corpi» (nāmāni... dadhire yajniyāny, asūdayanta tanvaḥ sujātaḥ, ṚV. I, 72, 3)37. È grazie al suo «conosce i nascosti nomi segreti (apīcyā veda nāmāni guhyā) che Vaṛuna diffonde la molteplicità delle nozioni delle cose create (kavyā puru…puṣyati), al pari che il Cielo (ovvero il Sole) diffonde i loro aspetti»38 (rūpam), le cui “nozioni di cose create” (kāvyā = kavikarmāṇi, si veda la nota 2) che «risiedono in lui come il mozzo nella ruota» (ṚV. VIII, 41, 5 e 6). Anche l’attività produttiva dei principi co-creativi è nominativa (nāmadheyaṁ dadhānaḥ, ṚV. X, 71, 1)39; «La virtù bovina (sakmyaṁ goḥ) del Toro e della Mucca, questo è ciò che misurano con i nomi (ā nāmabhiḥ mamire) facendo in essa un’immagine manifestata» (ni…mamire rūpam asmin, ṚV. III, 38, 7), «Invero essi si ricordano (amanvat) allora il nome lontano (nāma… apīcyam, che Griffith traduce mirabilmente con “forma essenziale”) della Vacca di Tvaṣṭṛ nella mansione lunare» (ṚV. I, 84, 15); «Quando egli (il Sole) s’è levato, tutte le cose lo abbelliscono; di per sé luminoso, avanza pieno di gloria; questa è la forma possente del Toro, del Titano, è l’Onniforme che assume il suo posto sulle sue aeviternità» (mahat tad vṛṣṇo asurasya nāmā, ā viśvarūpo amṛtāni tasthau, III, 38, 4, dove Viśvarūpa deve essere Tvaṣṭṛ, e amṛtāni, pl., contrasta con un implicito anantatva in cui, o in quanto che tale, l’Asura rimane soggiacente, ante pincipium); «il Figlio (il Sole) nella luce del Cielo determina il terzo nome nascosto del Padre-Madre (dadhāti putraḥ pitror apīcyaṁ nāma tṛtīyam adhi rocane divaḥ, IX, 75, 2, dove dadhāti... nāma è uguale a nāmadhāḥ in X, 82, 3, citato prima); e tutto questo è allo stesso tempo un ricordo creativo nel senso platonico, come in ṚV. X, 63, 8 dove i Viśve Devāḥ sono «memori di tutto ciò che è mobile o immobile» (viśvasya sthātur jagataś ca mantavaḥ). È “con le parole” (vacobhiḥ) che «Lo concepiscono come molteplice, Lui che è Uno»40 (ṚV. X, 114, 5); In effetti Egli appare dipendente dall’incantazione rituale: «Certi cantarono, ed evocarono intellettualmente il Grande Canto, per mezzo del quale hanno fatto splendere il Sole»41 (arcanta eke mahi sāma manvata, etc., ṚV. VIII, 29, 10); «con una parola angelica hanno aperto il recinto delle mandrie» (vacasā daivyena, etc., ṚV. IV, 1, 15)42.

I “nomi” o noumeni delle cose, inoltre, sono perpetui e secondo questo aspetto differenti dalle cose stesse nella loro manifestazione contingente: «Quando un uomo muore, ciò che non lo abbandona è il suo nome (nāma), che è senza fine (ananta) e dato che ciò che è senza fine è il Pleroma Angelico, egli vince di conseguenza il mondo senza fine» (anantaṁ lokam), BṛhU. III, 2, 12; in altre parole il suo nome «è scritto nel Libro della Vita». Dal punto di vista dei principi desiderosi in potentia, ma ansiosi di passare all’atto, il possesso d’un “nome” e la corrispondente identità è naturalmente il grande desideratum43, e ciò che temono di più è essere «derubati dei loro nomi», cfr. ṚV. V, 44, 4 «Krivi nella foresta ruba i loro nomi», (krivir nāmāni pravane muṣyati).

D’altra parte, non va dimenticato che l’individuazione e l’identificazione sono limitazioni specifiche, che implicano solo il possesso d’un particolare insieme di possibilità ad esclusione di tutte le altre. «La parola (vāc) è la corda e i nomi (nāmāni) il nodo che lega tutte le cose» ( AA. II, 1, 6). La liberazione (mukti), distinta dalla salvezza, è qualcosa di differente rispetto al perpetuo e ideale essere ancora se stessi e come se fosse una parte della rappresentazione “pittorica” del mondo. La liberazione in senso proprio non è soltanto una liberazione dal divenire fenomenico, ma anche da ogni determinazione noumenica44. Il ciclo che per il Viandante deve cominciare con l’audizone, ossia col trovare un nome, deve concludersi per il Comprensore nel silenzio, là dove i nomi non sono pronunciati, nessuno è nominato, nessuno è ricordato. Colà, la conoscenza-di, che implicherebbe la divisione, si perde nella coincidenza di conoscente e conosciuto «come un uomo chiuso nell’abbraccio di una cara sposa non sa più nulla d’un dentro o d’un fuori» (BṛhU. IV, 3, 21); là «nessuno sa chi entra, se è il tale o il talaltro» (Rūmī); la preghiera dell’anima è esaudita, «Signore, il mio bene è che tu non pensi mai a me» (Eckhart).

Se l’aspetto manifestabile dell’Identità Suprema ci sembra ridotto alla diversità e individualizzato, la dottrina dell’Esemplarismo, tradizione comune all’Oriente e all’Occidente, mostra la relazione di questa apparente molteplicità con l’unità dalla quale procede, e al di fuori della quale il suo essere sarebbe un puro nulla; di più, dato che il fine ultimo deve essere identico all’inizio primordiale, viene indicata la via che conduce nuovamente dalla molteplicità all’unità, dall’apparenza alla realtà. Com’è detto nell’AA. II, 3, 8 (3,4) «Gli Artisti [i Poeti-profeti vedici], mettendo da parte il Si e il No, ciò che è troppo “brutale” e ciò che è velato nel discorso45, hanno scoperto quel che cercavano; essi che dipendevano dai nomi sono ora beatificati in ciò che è stato rivelato; gioiscono ora in ciò che è stato rivelato dal nome, in ciò in cui la schiera degli Angeli diviene uno; respingendo ogni male con questa potenza spirituale, il Comprensore raggiunge il Paradiso»46.

(traduzione a cura di Flavia BUZZETTA e Paolo URIZZI)