Prospettive Sacre d'Oriente e d'Occidente

Rivelazione e Conoscenza

Śankara sul ruolo della śruti e dell’anubhava per il raggiungimento del brahmajñâna1

Kim SKOOG

Nel suo recente articolo dal titolo «Śankara's Rationale for Śruti as the Definitive Source of Brahmajñāna: A Refutation of Some Contemporary Views»2 Anantanand Rambachan cerca di chiarire un errore fondamentale degli studi contemporanei riguardanti il ruolo della śruti nell’epistemologia di stampo Advaita. Riguardo l’opinione consolidata circa le scritture della śruti, uno dei sei mezzi ammessi dall’Advaita Vedanta per giungere alla conoscenza (pramāṇa)3, Rambachan sottolinea che:

secondo questi studi Śaṅkara non considera la śruti come la fonte unica e decisiva della nostra conoscenza della natura della realtà ultima (brahman). La conclusione più comune degli studi attuali su Śaṅkara suggerisce che egli ponesse una peculiare esperienza (anubhava) come ultima fonte efficace per la conoscenza di brahman (brahmajñāna). Si lascia intendere che le affermazioni della śruti debbano essere verificate e confermate in base alle conoscenze acquisite attraverso quest’esperienza e che quindi l’autorità della śruti è solo secondaria4.

Al contrario, Rambachan sostiene che nel sistema epistemologico di Śaṁkara solo la śruti sia la fonte autoritativa del brahmajñāna. Diversamente da quanto generalmente ritenuto, il suo ricorso alla śruti non è “né avventizio né dispensabile” e tanto meno una mera necessità di conformarsi all’ortodossia. Rambachan considera tre possibilità a supporto della sua interpretazione della posizione di Śankara sulla śruti: (1) la śruti come la fonte logica della brahmajñāna, (2) śruti come fonte sufficiente della brahmajñāna e (3) śruti come fonte efficace della brahmajñāna.

(1) La śruti è l’unico pramāṅa in grado di fornire una conoscenza di brahman, a causa della natura di quest’ultimo, ovvero del suo essere impercettibile: la percezione e gli altri pramāṅa sono radicati nelle facoltà percettive dei sensi, sia direttamente (come la percezione stessa), sia indirettamente, attraverso le loro inferenze, comparazioni e così via, basate sulla percezione sensoriale; di conseguenza tutti i pramāṅa non hanno accesso ai fenomeni impercettibili, eccetto la śruti. Questa soltanto è fonte della conoscenza degli oggetti impercettibili (ovvero dharma e brahman). Rambachan sembra indicare che usare un pramāṅa basato sui sensi (tutti tranne la śruti) per identificare o conoscere il brahman o il dharma (entità non sensibili) sarebbe quanto meno un errore di categorizzazione. Di conseguenza Rambachan sostiene che, a rigor di logica, la śruti è l’unico strumento in grado di fornire una conoscenza rivelatrice di un’entità impercettibile.

(2) Śaṁkara attribuisce la causa dell’esistenza mondana, del nostro stato di schiavitù, ad una fondamentale incomprensione della natura di ātman (il sé) e brahman.

La śruti fornisce una spiegazione adeguata della natura di ātman/brahman e rappresenta, quindi, una modo adeguato per rimuovere l’ignoranza. Non c’è alcuna bisogno di considerare necessari altri pramāṅa o anubhava per raggiungere la liberazione e la conoscenza.

(3) Uno studio attento delle proposizioni della śruti è un modo efficace per raggiungere la liberazione, senza bisogno di alcuna azione. Il suo conseguimento è simultaneo all’ottenimento della conoscenza per mezzo della śruti. La funzione della conoscenza rivelata per mezzo della śruti è quella di rimuovere gli ostacoli che si frappongono ad una corretta concezione del rapporto fra brahman ed il sé (ātman). Con la śruti no viene creato nulla di nuovo; è semplicemente l’esatta conoscenza della nostra vera natura, che era oscurata dall’errata identificazione causata dall’ignoranza.

Quanto all’anubhava, l’idea generale di Rambachan è che la śruti è fonte fonte sufficiente ed effettiva di brahmajñāna, alla quale non è necessario aggiungere l’anubhava. Śaṁkara afferma più volte che śruti è la fonte effettivadi brahmajñāna: non c’è, quindi alcuna riscontro testuale che suuporti l’idea che anubhava sia la fonte “eminente” per l’ottenimento di brahmajñāna. Infine anubhava non mai posta fra gli altri pramāṅa.

Per rispondere all’articolo di Rambachan è necessario soffermarsi su alcune questioni.

L'opinione corrente circa il ruolo della śruti

Rambachan ha ragione ad affermare che c’è stata una tendenza comune fra gli studiosi di stampo Advaita a sminuire il ruolo della śruti nel pensiero di Śaṁkara. Questa distorsione del pensiero Advaita è particolarmente diffusa fra i suoi primi apologeti. Quando la filosofia indiana fu presentata ai pensatori occidentali, è probabile che i suoi esponenti avvertissero la possibilità che questi ultimi la percepissero come un pensiero dal contenuto sostanzialmente religioso, dalla limitata portata filosofica. Di conseguenza, questi primi apologeti misero l’accento sul rigore del suo metodo, trattando con indifferenza i frequenti riferimenti a passaggi scritturali, a supporto di una particolare posizione. Furono fatti degli sforzi per presentare Śaṁkara come un filosofo scrupoloso, meticoloso, piuttosto che come un teologo che aveva a che fare con i testi sacri dell’Induismo. Inoltre il tono dei suoi commentari e delle sue opere era improntato ad uno stile estremamente rigoroso e argomentativo, che collimava più con il pensiero filosofico occidentale che con studi di esegesi religiosa.

Śaṁkara può forse essere considerato più un teologo che un filosofo – posto che queste due categorie si escludano a vicenda. Ma queste preoccupazioni sembrano superflue, perché sembra più importante valutare il suo contributo nel campo della filosofia. Date le profonde intuizioni metafisiche, psicologiche, epistemologiche e linguistiche che costellano il suo pensiero, pochi oggi possono dubitare del quo contributo all’indagine filosofica.

Volendo muovere una critica, va notato che Rambachan ha considerato “contemporanei” lavori scritti in buona parte nei primi anni di questo [ventesimo N.d.T.] secolo. I testi citati di Radhakrishnan, Belvalkar, Buch, Prabhavananda e Devarajas sono stati tutti scritti nel primo quarto del nostro secolo. Se si fosse rivolto a lavori più recenti, avrebbe trovato studi più in armonia con le sue posizioni. Si consideri il seguente estratto dal recente lavoro di Karl Potter sul pensiero Advaita:

L’importanza delle scritture diventa evidente. [...] Un critico del pensiero Advaita, incapace di usare i comuni modi di ragionamento per stigmatizzare questo sistema, può solo aggirare la questione indietro e chiedere perché mai dovrebbe rivolgere la sua attenzione, e tanto meno credere, ad un sistema senza basi razionali. A questo la risposta Advaita è che la base, razionale o meno, è data dalle scritture, che tutte le scuole di pensiero più ragionevoli considerano come il pramāṅa che fa riferimento a ciò che è al di là del dominio dei sensi […] Sono le stesse scritture che, nella visione Advaita, si fanno carico [della giustificazione del loro stesso sistema]5.

Possono essere citati altri scrittori contemporanei (ad esempio Eliot Deutsch, Sengaku Mayeda, Satchidananda Murty, e così via6) ad indicare la predominanza di questa posizione riguardo la śruti. Se gli studi contemporanei persistono nella loro indifferenza riguardo alla śruti, non è a causa di un’opinione diffusa sull’insincerità di Śaṁkara nei suoi confronti; piuttosto si ritiene che la dimensione esegetica dei discorsi di Śaṁkara – sebbene importante per lui come per altri che riconoscono l’autorità dei Veda –- sia poco stringente per coloro che non condividono la sua dimensione dottrinale, ovvero i filosofi occidentali. La verità filosofica non è determinata dalla compatibilità di un certo sistema con un dato corpus scritturale; si guarda piuttosto alla coerenza di un sistema con l’esperienza umana, oltre che alla sua coerenza interna.

Śruti come mezzo fondamentale per il conseguimento della brahmajñāna

Un secondo punto da prendere in considerazione è la convinzione di Rambachan che la śruti sia l’unico mezzo per raggiungere la brahmajñāna e che l’anubhava vada esclusa dalle vie percorribili verso la conoscenza di brahman. Questo può essere legato alla sua scelta di limitare la discussione solamente al livello dei pramāṅa (i mezzi di conoscenza). Per Śaṁkara la conoscenza (jñāna) non si ottiene solo e soltanto per mezzo dei pramāṅa. C’è una distinzione cruciale fra livelli di verità/realtà, più alti o più bassi, che Rambachan ha omesso dal suo discorso. Secondo la dottrina Advaita, al livelli di pāramārthika (la realtà ultima e la sua consapevolezza) c’è solo conoscenza di brahman, uno stato di coscienza privo di ogni distinzione mentale percettiva, in cui persino la comune separazione fra soggetto e oggetto di conoscenza è messa da parte. Questo stato di coscienza o questa forma di conoscenza è detta mokṣa (liberazione) o anubhava (coscienza diretta) o, ancora, brahmajñāna (conoscenza di brahman). Al contrario, al livello di vyavahara (la realtà pratica e la relativa forma di conoscenza) sussistono la molteplicità, il pensiero discorsivo, la dualità. Un oggetto è (concettualmente) conosciuto come altro da sé e dotato di qualità distintive. É a questo livello che si fa riferimento ai pramāṅa (mezzi di conoscenza), che servono, appunto, ad esperire oggetti specifici.

Posta questa distinzione, è chiaro come la śruti, intesa come uno dei pramāṅa, produce solo pramā (conoscenza relativa, dualistica di un oggetto da parte di un soggetto conoscitore distinto). La śruti è considerato un caso a parte fra i pramāṅa, perché è l’unico che si riferisce a realtà impercettibili e trascendenti come brahman e dharma. Ma, data la natura trascendente di brahman, ogni tentativo di esprimere a parole o concettualizzare la sua natura è al massimo un’approssimazione. La śruti ci dà solo una conoscenza relativa di brahman, non una diretta consapevolezza della sua vera natura. Al contrario, brahmajñāna è un risveglio spirituale nel quale si riscopre il proprio vero sé (ātman); quest’esperienza essenziale non è, comunque, qualcosa che accade comunemente quando si ascolta un riferimento a brahman contenuto nelle scritture.

L’unica eccezione in cui la śruti ha un ruolo nella brahmajñāna – ed è forse su questo che Rambachan ha focalizzato la sua attenzione – è il caso in cui un individuo (a seguito di una rigorosa preparazione spirituale) è vicino alla liberazione e l’effetto catalizzatore delle mahāvākyas (grandi proposizioni) presenti nella śruti lo “spinge” verso la sua realizzazione effettiva. I seguaci della dottrina Advaita specificano che la sādana catuṣṭaya (il quadruplice controllo o disciplina) è necessaria prima che uno possa raggiungere la liberazione. Questa consiste (1) nella capacità di discriminare (viveka) fra ciò che è reale e ciò che non lo è, (2) indifferenza (vairāgya) riguardo ogni più piccolo desiderio e appetito dei sensi, (3) tranquillità mentale (sama), auto-controllo (dama), assenza di passioni (uparati), perseveranza (titikṣā), mente risoluta (samādhāna) e fede (sraddhā), (4) desiderio ardente della liberazione (mumkṣutva). Secondo Śaṁkara, quando ci si è sufficientemente preparati sotto questi aspetti, allora ci si è purificati a tal punto che, ascoltando certi passaggi delle scritture, si raggiunge istantaneamente la liberazione. Nel passaggio seguente Śaṁkara prende in considerazione l’obiezione di chi contesta che l’ascolto della śruti conduca alla liberazione, che si ottiene solo aggiungendovi il rispetto tassativo delle norme.

Così come il semplice fatto di sentir dire che la vera natura del serpente che si era immaginato è quella di una corda, fuga la paura, così il solo fatto di sentir parlare della vera natura di Brahman dovrebbe allontanare le concezioni erronee sul proprio essere soggetti alla trasmigrazione. Ma non è così. Vediamo uomini che, pur essendo loro stata spiegata la vera natura di Brahman, sono ancora affetti da piacere, dolore ed altre tendenze che li legano alla condizione della trasmigrazione. Oltretutto in un passo della Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (II.iv.5) si legge: “il Sé bisogna ascoltarlo, ponderarlo e meditarlo”, ove ponderazione e meditazione seguono il mero ascolto. Da ciò consegue che lo sastra può essere ammesso come mezzo per la conoscenza di Brahman solo se connesso con il rispetto tassativo delle norme.

[...] Vogliamo sottolineare che ponderazione e meditazione sono esse stesse del tutto subordinate alla comprensione di brahman. Se, dopo averlo compreso, questo fosse subordinato a qualsivoglia imposizione, potrebbe essere considerato supplementare ad esse. Ma non è così, dato che ponderazione e meditazione, sono subordinate alla comprensione non meno dell’ascolto7.

La śruti non è in sé sufficiente a determinare la liberazione di chi ascolta. Se così non fosse, chiunque sia giunto fino a questo punto dell’articolo o abbia ascoltato o letto un mahāvākya dei Veda, sarebbe ora felicemente illuminato. È piuttosto l’effetto combinato dell’impegno nei doveri supplementari di ponderazione, meditazione ed ascolto (lettura) della śruti che conduce alla comprensione di brahman.

L'interazione fra śruti e anubhava

Sarebbe scorretto pensare che siano i mahāvākya della śruti a causare la liberazione; allo stesso modo essi non forniscono alcuna forma, verbale o scritta, di brahmajñāna (al di là del aspetto “mondano” più superficiale). È l’esperienza dell’anubhava in sé, del fondersi dell’aspirante nel brahman non-duale che costituisce brahmajñāna8. Rambachan sembra aver confuso il contenuto delle affermazioni della śruti con l’esperienza che essa può occasionalmente generare. Anubhava e śruti sono due modi distinti ed incommensurabili di conoscere brahman. La śruti è una rappresentazione concettuale, un tentativo di approssimare in modo dualistico (soggetto-oggetto) ciò che è non-concettuale e non-duale. Ha il fine didattico di parlare alle persone di una realtà (ovvero, della vera natura della realtà) che è normalmente al di là della coscienza basata sui sensi. Questa funzione è essenziale al fine di raggiungere la liberazione. Ma, per sua stessa natura, è limitata a questo modo di comprensione concettuale, pur aprendo la strada all’anubhava, la diretta percezione di brahman, che non è di natura concettuale per sua stessa definizione. L’anubhava procura l’esperienza diretta non-duale di brahman, che è la liberazione stessa. Si prenda in considerazione il seguente passo tratto dal commentario di Śaṁkara ai Brahmasūtra.

I testi scritturali e simili non sono, nella ricerca di brahman, i soli mezzi di conoscenza, come lo sono nell’indagine riguardante i doveri pratici [ovvero nella Purva Mimamsa], ma bisogna ricorrere ai testi sacri da un lato e all’intuizione (anubhava), ed altri mezzi simili, dall’altro in base alle circostanze, perché per prima cosa l’intuizione è il risultato finale della ricerca di Brahman; secondo perché l’oggetto della ricerca è una sostanza (perfetta) esistente. Se l’oggetto della conoscenza di Brahman fosse qualcosa da perfezionare, non si farebbe riferimento all’intuizione ed il testo assieme agli altri strumenti, sarebbe l’unico modo per raggiungere la conoscenza9.

In questo passaggio, così come in quello citato in precedenza, Śaṁkara chiarisce perfettamente la sua idea che la realizzazione di brahman non va vista come un’azione, ma come una consapevolezza che fornisce la corretta prospettiva sulla natura di noi stessi e del mondo. Niente è “fatto” in quanto azione; piuttosto ci si allontana l’ignoranza, cioè viene corretta una cattiva interpretazione del reale. La cosa che più interessa qui a Śaṁkara è evitare che il processo che conduce alla liberazione venga designato come un’azione. Questa è un evento finito, non-eterno e, in quanto tale, soggetto al divenire ed alla fine. Di conseguenza, se la liberazione è un’azione, allora è impermanente ed ha una fine, oppure è l'esatto contrario – un punto di vista, quest’ultimo, assolutamente inaccettabile per Śaṁkara e non conforme alle scritture.

Il fatto che egli usi spesso l’espressione “la śruti causa brahmajñāna” si può pensare serva a due scopi. Primo, riferirsi alla śruti come ad uno strumento per raggiungere la liberazione fa sì che non si possa parlare di uno specifico strumento che causa brahmajñāna. Se Śaṁkara avesse parlato di brahmajñāna con espressioni come “visione illuminante” o “trasformazione liberatrice”, che il termine anubhava potrebbe facilmente evocare, allora avrebbe dato ai suoi avversari la possibilità di affermare che la liberazione è un’azione o un evento. Secondo, riferendosi alla śruti, Śaṁkara ha la possibilità di porre l’accento su come questa ci informi dell’esistenza di brahman e del nostro essergli identici, oltre che della sua funzione di catalizzatore che dirige coloro che sono adeguatamente preparati alla realizzazione finale di brahman.

Alcune metafore possono illustrare il ruolo essenziale, eppur temporaneo, che la śruti ha nel guidare alla liberazione: ad esempio la zattera che si usa per guadare un fiume, il dito che punta alla luna, la scala che porta più in alto. La śruti è un mezzo per raggiungere un fine e, quando questo raggiunto, viene messa da parte. Il seguente verso tratto dalla Bhagavadgītā (II, 46) riporta quest’idea nel contesto dell’uso di Veda da parte un uomo illuminato:

L’utilità che ha un bacino di fronte ad un torrente sempre straripante è quella che hanno i Veda per un Brahmana illuminato10.

Considerazioni teologiche

In uno sforzo volto a chiarificare ulteriormente quanto già esposto, oltre che ad esplorare le ramificazioni della dottrina Advaita, la cui nozione di autorità scritturale può essere confrontata, in molti punti, con le più familiari opinioni Occidentali (Cristiane) sull’argomento.

1. La pramāna śabda o śruti è una categoria epistemologica sostanzialmente più ampia della concezione Cristiana di autorità scritturale e rivelazione. Essa si riferisce non solo alla rivelazione scritta (śruti), ma ad ogni fonte o autorità degna di fede. Ogni fonte secondaria o informazione, come ad esempio notizie, racconti di testimoni o descrizioni. è considerata una scienza ottenuta per mezzo della śabda. La fonte principale è, comunque, scritturale, perché è solo per mezzo delle scritture che abbiamo contezza di fenomeni trans-empirici.

2. La śruti non è un’autorità indiscutibile, soprattutto se si trova in contraddizione con altri pramāṇa o mezzi di conoscenza. Se un passaggio delle scritture proponesse un’osservazione sul mondo che contraddice la nostra conoscenza derivata dalla percezione, allora ci verrebbe consigliato di tralasciare il primo e basarci sulla seconda.

3. La śruti – soprattutto per come viene utilizzato nell’Advaita Vedānta – è più un mezzo per raggiungere un fine (brahmajñāna) che una fonte assoluta di autorità, nella quale trovano risposta tutte le questioni di fede, spiritualità e quotidianità. Ogni conoscenza derivata dalle scritture culmina nell’esperienza illuminante e liberatrice di anubhava. La śruti, essendo uno dei pramāṇa0, è foriera di una conoscenza illusoria, mondana, con un’ignoranza latente e che, in definitiva, viene superata dalla conoscenza liberatrice. Comunque, finché quest’ultima non è sorta, la śruti funziona come fonte di autorità spirituale nella quotidianità religiosa di un Indiano, così come la Bibbia lo è per un Cristiano. Quest’ultimo, comunque, non riconosce alcuna forma di realizzazione mistica o liberazione dall’ignoranza e dal peccato come culmine necessario della propria vita spirituale.

4. L’origine o la fonte ultima delle scritture è identificata con gli antichi ṛṣi vedici, o visionari che hanno annotato le verità che si trovano nella śruti. Il Veda è di origine super-umana, è un’infallibile fonte di saggezza spirituale. Va notato che persino il suono dei testi stessi è parte integrante del potere e dell’influsso della śruti ed è usato in vari rituali e cerimoniali. Il punto di vista indiano riguardo la rivelazione è in contrasto con quello occidentale e “Heilsgeschichtlich”, che la vede come una serie di fatti storici11. In particolare, durante un ben preciso segmento della storia – che ha inizio con le origini dello stato giudaico e finisce con lo sviluppo della comunità cristiana – la natura e la presenza di Dio si sono manifestate attraverso una serie di eventi che hanno coinvolto solo alcuni profeti ed apostoli. I Cristiani basano al loro fede su questi eventi, avvenuti nel mondo e documentati da uomini ben informati su quanto era accaduto. Nel contesto Indiano, la śruti copre una vasta gamma di forme letterarie. Quando, comunque, sono riportati eventi e storie, questi si svolgono generalmente in un ambiente contesto chiaramente divino o oltremondano. I testi comprendono, oltre alle speculazioni filosofiche, anche inni rivolti agli dei o istruzioni che riguardano pratiche rituali.

(traduzione a cura di Michele PETRONE)